di Valentina Trentini
Il corpo come spazio, il corpo come luogo di memoria, il corpo come tempo di un limite tra passato, presente e futuro.
Cos’è questo corpo che ha interessato e interessa ancora oggi artisti, medici, psichiatri , fotografi, stilisti?
Questa domanda, così contemporanea, ma allo stesso tempo eterna, accompagna lo spettatore per tutta l’esposizione “Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli” a Palazzo Reale fino al 4 maggio 2025.
L’allestimento presenta opere di più di 140 artisti, ma tutte sono legate al tema dell’identità e del corpo. O forse, del corpo come identità.
A ogni stanza della mostra appartiene un tema centrale, che si interseca con il fil rouge del corpo come soggetto e, insieme, oggetto di desiderio e piacere. Ogni stanza è la tappa di un viaggio che lo spettatore compie alla scoperta del sé più nascosto. Attraverso ogni stanza si delineano le questioni centrali di una contemporaneità sfaccettata, alla ricerca di un’identità che si unisce alla riflessione sul corpo.
La prima stanza è monografica e dedicata a Cindy Sherman, che esplora il tema dell’identità femminile in un tempo in cui la rappresentazione della donna rimane circoscritta a un’idea oggettificata, la donna è vista come corpo che ha come fine il desiderio, manipolata dai media, in un mondo in cui a prevalere è il male-gaze. Cindy Sherman vuole sovvertire questo regime, lo sguardo femminile non è più solo passivo e soggetto alle dinamiche di potere che gli vengono imposte, ma può essere corpo desiderante, attivo. in “Untitled #130”, della serie Fashion, vengono esplorati i cliché della bellezza femminile nelle pubblicità di moda. (foto) Sherman mette in scena sé stessa come protagonista di fotogrammi cinematografici fittizi, rappresentando e al tempo stesso decostruendo gli stereotipi femminili imposti dai media nell’America di fine anni Settanta. Attraverso l’uso di manichini l’artista denuncia la mercificazione e l’immagine distorta del corpo femminile, a cui non viene dato modo di prendersi lo spazio che desidera, ma solo quello che gli viene concesso.
Nella stanza successiva la riflessione sull’identità femminile prosegue, con opere dell’artista Lisa Yuskavage. A condurre la riflessione artistica è sempre il tema della sessualità femminile, in un modo audace e provocante. Le sue donne sfidano ogni standard estetico e le aspettative sociali, imponendo la propria autonomia espressiva. I suoi soggetti sono ritratti con intensità e complessità emotiva, una caratteristica che spesso alle donne non era dato avere. Il fine ultimo è quello di aprire un dialogo, una riflessione, sui rigidi paradigmi estetici che gravano sui corpi delle donne. (foto Lisa Y)
Proseguendo per la mostra si entra in una terza stanza, un nuovo tema: “maschere e verità”. Sul filo conduttore della ricerca dell’identità, l’arte contemporanea si configura come un campo privilegiato per esplorare la mutevolezza e la complessità di ciascuno. Le opere esposte in questa stanza vogliono decostruire le maschere sociali, criticare i ruoli di genere e le gerarchie culturali. Ad esempio, il lavoro fotografico di Nan Goldin documenta con crudezza e poetica autenticità la fluidità delle relazioni e dei corpi. La sua opera più celebre, “The ballad of sexual dependency”, celebra la comunità queer degli anni Settanta e Ottanta esplorando la fragilità, la libertà e l’intimità di una generazione. Tra familiarità, sesso, violenza e perdizione, le sue fotografie presentano un’intimità cruda, sono in grado di catturare la vulnerabilità in modo a tratti delicato, a tratti sovversivo, ma che forse è il modo in cui molti vogliono avvicinarsi alla propria sessualità.
Il viaggio alla riscoperta del sé continua nella sala dedicata proprio ai “frammenti di sé”. Quale tipologia di dipinti e fotografie meglio si addice a documentare sé stessi se non i ritratti e gli autoritratti? Questi ultimi sono diventati, nel corso della storia, degli strumenti critici per indagare la complessità dell’individuo e il suo ruolo nella società. Il ritratto è diventato così una forma d’arte più soggettiva, che mette in discussione, che sovverte, che permette una riflessione. Protagonista di questa stanza è Francesco Gennari, che ha dedicato tutta la vita all’analisi di sé stesso. L’artista, pur realizzando sempre autoritratti, parte da un elemento della sua quotidianità per elevarlo a una dimensione universale e metafisica. E così nei suoi autoritratti vediamo ad esempio il colore del suo maglione, ora giallo, ora rosso, ora azzurro, che di volta in volta si trasforma, diventa un eclissi di sole, la notte, un tramonto. La percezione del sé si interseca così con la natura e con il cosmo: l’identità si plasma a partire da ciò che ci circonda.
Nella sala successiva lo spettatore si trova davanti al mescolarsi di tradizioni diversissime, da quella indiana, a quella africana, a quella irachena. In particolare, è la rappresentazione del corpo femminile a tornare feroce a prendersi lo spazio. Il corpo delle donne diventa in questa stanza simbolo potente di resistenza e rinascita, evocando divinità antiche e figure archetipiche. La sala si propone come una riflessione sulla necessità di ampliare lo sguardo oltre la tipica prospettiva occidentale della storia dell’arte. L’arte è un confluire di narrazioni diverse, ciascuna preziosa a suo modo. Il corpo viene nuovamente visto come simbolo universale, non solo come entità fisica. Perché il corpo è molto più che un corpo materiale. Oltre la carne, oltre la pelle, oltre gli organi, c’è qualcosa di invisibile che tiene insieme un corpo. Lo spettatore si trova di fronte ai dipinti di Hiba Schahabz, che attraverso l’uso di materiali insoliti, come gouache e foglie d’oro, crea composizioni intime, che esplorano la femminilità, ora non più vista come un costrutto sociale con regole da seguire, ma come un modo d’essere che si può plasmare su ciascuno in modo diverso. E così la donna diventa sirena, diventa leone, diventa fiore, diventa parte di un tutto che prima non le era mai stato concesso. (foto)
La stanza successiva, sui passaggi onirici, rappresenta un punto cruciale nel percorso espositivo, dove reale e immaginario si intrecciano in un dialogo fluido, dove vengono a mancare le distinzioni tra mondo sveglio e mondo dormiente. La sala presenta un invito a ripensare la natura della percezione umana, che a volte trae in inganno, facendo credere allo spettatore che si possa davvero separare ciò che siamo mentre dormiamo da ciò che siamo mentre siamo svegli. In “Big Blonde Jerking Off”, ad esempio, dipinto di Lisa Yuskavage, la pittura fonde il reale con l'immaginario: le scene reali sembrano ambientate in mondi fantastici. Il sogno non è più un momento passivo, ma un atto in prima persona per esplorare i propri desideri. In questo dipinto la figura femminile è nuda, su uno sfondo completamente astratto, la cui natura artificiale è enfatizzata dal tono acceso dello sfondo rosa. L’intimità del gesto stona dalle sembianze surreali della figura femminile qui rappresentata, eppure risulta al contempo coerente. C’è qualcosa di molto sensuale e provocante in questo dipinto che spinge lo spettatore a volerlo esattamente così com’è. Finalmente la donna viene rappresentata come artefice del proprio piacere, e se non è sovversivo questo, cos’altro potrebbe esserlo, in un mondo dove si pensa ancora che il corpo della donna non sia soltanto affar suo.
La mostra si conclude con una sala dedicata interamente all’iconografia del corpo a riposo. Le figure dei corpi sdraiati, dormienti, sono state pensate per suscitare delle riflessioni sull’intimità e la vulnerabilità del riposo. Le figure ritratte sono in stati di abbandono, di sonno, di meditazione, ma in questa sala diventano metafore universali della fragilità umana, tra calma e inquietudine, tra staticità e trasformazione. Lo spettatore così, prima di lasciarsi alle spalle le opere, viene invitato a rallentare, a riscoprire un tempo distante dalla frenesia quotidiana, un tempo in cui essere vulnerabili non è un difetto da condannare, ma un tesoro da custodire. La loro posizione di riposo è un invito all’abbandono a cui solo l’arte può portarci. O meglio, almeno davanti all’arte ci si può permettere di lasciarsi andare.
Perché se non ci si prende il tempo di fermarsi ed essere vulnerabili, sarà il corpo a farlo per noi. Perché il corpo non è solo materia, può essere luogo, può essere spazio, può essere amico confidente o nemico giurato. Perché alla fine, tutto dipende da come lo si guarda.