È sempre piacevole andare a spasso per il centro di Milano e tra un panzerotto di Luini, un salto alla Rinascente e un selfie al Duomo, finire tra i corridoi dell’ultima mostra in corso a Palazzo Reale. A volte, però, è bello anche andare oltre le mostre mainstream, abbandonare quel senso di sicurezza che un’esposizione "di grido" ti può dare, cercando di scoprire nelle numerose realtà espositive milanesi nate di recente, che cosa c’è di interessante e rompere così le mura della tanto amata comfort zone. Lo facciamo prenotando viaggi “zaino in spalla” in Thailandia, perché non farlo anche con i musei?!

Così ho fatto, e ho deciso di avventurarmi con un’amica nell’immensa area degli ex Frigoriferi Milanesi dove adesso ha sede la Open Care. Essa si occupa di servizi per l’arte a tutto tondo e, dunque, non poteva proprio mancare un luogo in cui creare mostre molto ricercate e ben studiate, promuovendo il collezionismo privato e in cui esporre a scopo di valorizzazione e studio, le collezioni d’arte conservate proprio presso il loro stesso Caveau (il più grande d’Europa, btw).

Attualmente – e fino al 6 giugno – è in corso “IL CACCIATORE BIANCO / THE WHITE HUNTER”, una mostra che mira a farci riflettere sulle costruzioni mentali di noi occidentali riguardo alla civiltà africana e alle nostre pretese (nel corso della storia) di “civilizzarli” e “modernizzarli”. Ne risulta un percorso pieno di paradossi e contrasti, che la rendono estremamente dinamica e mai noiosa.

Inizialmente, viene preso in giro lo spettatore negli stereotipi di come viene visto il popolo africano, questo tramite l’opera di Pascale Marthine Tayou, che riproduce all’ingresso una sorta di capanna primordiale, allestita con souvenir di vario genere, ricostruzioni moderne di feticci africani, totem trasparenti, presumibilmente di vetro o simili e, dunque, che poco hanno a che fare con quelli originali.

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna, ph. Alessandra Di Consoli

L’ingresso è quindi da mero turista, nonostante si percepisca già la pungente ironia, ma è dalla sala successiva in poi che prende forma il significato del titolo “il cacciatore bianco”, con tutte le sue possibili accezioni e comincia a farsi sentire il peso del nostro passato, ricordandoci che noi storicamente siamo colonizzatori. Ecco che ci viene presentato un modellino della fabbrica FIAT che sarebbe dovuta essere costruita a Trpoli e un video “Pays Barbare”, che parla della pretesa della civiltà occidentale di portare a tutti i costi la nostra modernità in Africa.

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, ph. Daniele Pio Marzorati

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, Peter Friedl, ph. Daniele Pio Marzorati

Provocazioni ed immagini dal duplice significato sono il filo conduttore della mostra, che bisogna visitare con molta cura, prendendosi tutto il tempo necessario per cogliere il dualismo celato dietro ad ogni opera. Sicuramente di forte impatto è il video in cui si vedono accostate immagini di vasi aggiustati grossolanamente come fossero cuciti e immagini di vere e proprie suture di operazioni di chirurgia plastica, e vi consiglio di tenere a mente quel concetto di riparazione verace con ago e filo, perché lo si ritrova nelle opere successive dell’artista Nicholas Hlobo, che ha la capacità di ricamare con del filo di raso qualsiasi superficie.

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Un altro duplice concetto interessante, è quello presentato riproponendo la mostra sull’arte negra presentata alla Biennale di Venezia del ’22. In quel tempo l’intento era quello di presentare sculture di arte africana, in quanto arte e dunque con tutta la dignità del caso, non come fossero reperti archeologici o simboli religiosi di una lontana civiltà da studiare. Questa scelta ovviamente non venne colta dai più e venne criticata molto all’epoca, anche perché tale esposizione era  presentata dopo una retrospettiva dedicata a Canova ed alle sue magnifiche statue candide e perfette nella loro idealità. Un contrasto che forse risulterebbe troppo forte persino oggigiorno. 

Piano piano, il dialogo tra lo stereotipo occidentale della civiltà africana, e la capacità di giocare su di esso dell’arte africana stessa, continua e ci accompagna verso gli spazi finali della mostra, in cui ci si imbatte in una sorta di passerella tra degli arazzi meravigliosi, che si stagliano come manifesti di musei di arte contemporanea africana, in realtà mai esistiti. Il gioco prosegue con simpatiche parrucche che richiamano quelle solitamente utilizzate dalle donne di colore, ma che in questo caso riproducono la forma di Landmark occidentali

parrucche ed arazzi, ph. Daniele Pio Marzorati

parrucche ed arazzi, Meschac Gaba, ph. Daniele Pio Marzorati

Uno sguardo anche all’ultima opera, a sinistra della grande parete ricoperta di  sacchi di juta logori (no, non è un Burri!), essa presenta una costruzione di specchietti che ci ricorda il modellino di un grattacielo, in realtà la metafora è forte: quella di togliere lo strato di pelle nera, per far emergere il nostro pallido volto bianco e costringerci a metterci faccia a faccia con la nostra coscienza, è candida come la nostra pelle?

Se siete curiosi di vedere tutto ciò con i vostri occhi, non vi resta altro che recarvi al FM CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA in via Piranesi, 10 dal mercoledì al sabato, dalle 14.00 alle 19.30, INGRESSO GRATUITO!!

Aperture straordinarie in occasione della Milano Photo Week:

Lunedì 5 giugno dalle 14.00 alle 19.30

Martedì 6 giugno dalle 14.00 alle 23.00