October 19, 2020No Comments

Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli, un tributo alla vita

Omaggiare la vita piuttosto che la morte. La tragica notizia di questa mattina, lunedì 19 ottobre 2020, vorrebbe farci notare una strana ironia della sorte. A distanza di pochi giorni dall’inaugurazione della retrospettiva del designer Enzo Mari a cura di Hans Ulrich Obrist e Francesca Giacomelli, si apprende la tragica notizia che Enzo Mari ci ha lasciati.

Voglia però essere questa coincidenza un tributo alla sua vita, all’enorme contributo all’arte, al design, all’architettura, alla progettazione che il grande Maestro ha donato nel corso della sua vita.

1976-2008 _44 Evaluations_Installation_view - © Triennale Milano - foto Gianluca Di Ioia

Triennale Milano con il suo Museo del Design Italiano presenta la mostra Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli dedicata al lavoro e al pensiero di Enzo Mari – uno dei principali progettisti, artisti, critici e teorici – documentati attraverso progetti, modelli, disegni e materiali spesso inediti, provenienti dall’Archivio Mari recentemente donato al CASVA - Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano.

Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano, ricorda che:

“in una intervista del 2016 Mari ha affermato di aver posto la condizione che, dopo la donazione, per quarant’anni nessuno avrebbe potuto accedere al suo archivio. Questo perché, nelle sue più ottimistiche ipotesi, solo dopo questo lasso di tempo, una nuova generazione potrà farne un uso consapevole e riprendere così in mano il significato profondo delle cose. La grande retrospettiva in Triennale costituisce dunque un’occasione unica per approfondire la lunga carriera di Mari – proprio nella città in cui ha sempre vissuto e lavorato – offrendo nuovi spunti interpretativi e chiavi di lettura.”

1953_I luoghi deputati

La mostra, nata dal costante scambio e dialogo intercorsi negli anni tra Mari stesso e il curatore Hans Ulrich Obrist, racconta oltre 60 anni di attività progettuale, dall’arte al design, dall’architettura alla filosofia, dalla didattica alla grafica.

Il progetto espositivo è articolato in una sezione storica, a cura di Francesca Giacomelli, e in una serie di contributi di artisti e progettisti internazionali – Adelita Husni-Bey, Tacita Dean, Dominique Gonzalez-Foerster, Mimmo Jodice, Dozie Kanu, Adrian Paci, Barbara Stauffacher Solomon, Rirkrit Tiravanija, Danh Vō e Nanda Vigo, oltre a Virgil Abloh per il progetto di merchandising – invitati a rendere omaggio a Mari attraverso installazioni site-specific e nuovi lavori appositamente commissionati. Un contributo particolare è quello di Nanda Vigo che nell’opera inedita, ideata per la mostra, prima della sua scomparsa, reinterpreta con la luce due dei lavori più celebri di Mari, i 16 animali e i 16 pesci.

1957_I sedici animali

La sezione storica si sviluppa a partire dal riallestimento dell’ultimo progetto espositivo dell’autore, Enzo Mari. L’arte del design, tenutosi alla GAM, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino nel 2008-2009, di cui Mari stesso aveva seguito la curatela, l’allestimento e il catalogo (un progetto globale). La mostra presenta un corpus che raccoglie una selezione di circa 250 progetti di Mari – dalle Pitture degli anni Cinquanta alle Strutture degli anni Cinquanta e Sessanta (Arte programmata), dalla serie di contenitori Putrella (1958) ai multipli d’arte de La Serie della Natura (1961-1976), dai vasi delle Nuove proposte per la lavorazione a mano del marmo. Serie Paros (1964) agli Allestimenti modulari di cartone (1964-1970), dal progetto per la Copertina della Collana Universale Scientifica Boringhieri (1965) alla sedia Box (1971), dall’Autoprogettazione (1973) alle ciotole della Proposte per la lavorazione a mano della porcellana. Serie Samos (1973), dalle 44 valutazioni (1976-2008) alla sedia Tonietta (1980), dai progetti non realizzati Tre piazze del Duomo (1982) all’Allegoria della dignità (1988), dalle Lezioni di disegno (2007- 2008) fino al progetto Per un Nuovo Museo del design per la rivista “Abitare” (2009-2010) – considerati tra i più rappresentativi dei quasi 2.000 ideati nel corso della sua carriera. Le opere sono esposte in ordine cronologico, senza distinzioni fra discipline, tecniche e tipologie di ricerca.

2002_Multiplo con i componenti-© Triennale Milano - foto Gianluca Di Ioia

In parallelo, diciannove Piattaforme di Ricerca, ideate per la mostra in Triennale, presentano approfondimenti su altrettanti progetti dai quali emergono le tematiche centrali nella pratica e nella poetica di Mari: le prime indagini sulle ambiguità percettive, le ricerche sulla produzione sperimentale, le ricerche sulla produzione di serie, il tema dello standard, etc. Negli approfondimenti è inclusa una selezione delle Allegorie – tra queste la prima Modulo 856 (1967), l’esercizio critico di progetto Proposta per un’autoprogettazione (1974), Perché una mostra di falci? (1986), l’ultima realizzata dall’autore Sessanta fermacarte (2010) - e degli ultimi progetti realizzati da Mari negli anni successivi alla mostra antologica di Torino, tra i quali lo scenografico progetto di allestimento dell’esposizione Vodun, African Voodoo (2011) disegnato per la Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi nel 2010, di cui è riproposto un ambiente dai potenti rimandi formali alle strutture dei modelli che costituiscono la Proposta per un’autoprogettazione del 1974.

Installation_View_1- © Triennale Milano - foto Gianluca Di Ioia

Completa il percorso una serie di video interviste realizzate da Hans Ulrich Obrist che testimoniano la costante tensione etica di Mari, la sua profondità teorica e la straordinaria capacità progettuale di dare forma all’essenziale. Con la retrospettiva su Enzo Mari e il Museo del Design Italiano l’intero piano terra del Palazzo dell’Arte è così dedicato al design italiano. L’esposizione si inserisce nel percorso iniziato da Triennale e dal suo Museo con le grandi mostre dei Maestri del design (Mario Bellini, Osvaldo Borsani, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass). Un percorso che continuerà nell’aprile del 2021 con l’esposizione dedicata a Vico Magistretti.
I Partner Istituzionali Eni e Lavazza, il Partner Tecnico ATM, l’Institutional Media Partner Clear Channel sostengono Triennale Milano anche per la mostra Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli.

September 4, 2020No Comments

Venezia stupisce sempre.

È in corso la 77° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a Venezia, organizzata dalla Biennale di Venezia e avente sede al Lido di Venezia dal 2 al 12 settembre 2020

Per l’occasione è stata allestita una Mostra, riconosciuta dalla FIAPF (Federazione Internazionale delle Associazioni di Produttori Cinematografici), che vuole favorire la conoscenza e la diffusione del cinema internazionale in tutte le sue forme di arte, di spettacolo e di industria, in uno spirito di libertà e di dialogo. 

Tra le offerte culturali in corso si segnala la mostra Le muse inquiete, La Biennale di fronte alla storia, visitabile fino a martedì 8 dicembre 2020. Organizzata da La Biennale di Venezia nella ricorrenza dei 125 anni dalla sua fondazione, ha sede al Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale ed è stata realizzata dall’Archivio storico della Biennale – ASAC. La mostra è curata per la prima volta da tutti i direttori dei sei settori artistici che hanno lavorato insieme per ripercorrere, attraverso le fonti uniche dell’Archivio della Biennale e di altri archivi nazionali e internazionali, quei momenti in cui La Biennale e la storia del Novecento si sono intrecciate a Venezia. 

La mostra propone un itinerario attraverso l’Archivio Storico della Biennale di Venezia, ripercorrendo alcuni momenti fondamentali del Novecento durante i quali guerre, conflitti sociali, scontri generazionali e profonde trasformazioni culturali hanno premuto contro i confini dell’Istituzione veneziana. L’Esposizione presenta documenti storici, materiali d’archivio, fotografie, filmati rari, e opere d’arte provenienti dal prestigioso Archivio ASAC e da altri fondi e istituzioni nazionali.

Qui è scaricabile tutto il programma.

Ma le novità non finiscono. A stupire c’è anche Ocean Space. Situato nella Chiesa di San Lorenzo, e inaugurato nel marzo 2019, Ocean Space è un’ambasciata per gli oceani, un centro che incoraggia un maggiore impegno e l’azione collettiva sulle questioni più urgenti che gli oceani devono affrontare oggi. Tra gli obiettivi che TBA21–Academy, suoi fondatori e guide, vogliono raggiunere, c'è la valorizzazione dello spazio come un nuovo centro globale per catalizzare l’alfabetizzazione, la ricerca e il sostegno di tematiche oceaniche attraverso l’arte. 

Oggi è in mostra OCEANS IN TRANSFORMATION. TERRITORIAL AGENCY fino al 29 Novembre. Attraverso video art e proiezioni, questa mostra intende sensibilizzare il pubblico sul mutamento degli oceani come specchio di un pianeta terra che si evolve in fretta.

Gli oceani sono costantemente soggetti a rapide trasformazioni, e tuttavia la conoscenza delle stesse procede ancora molto lentamente, paralizzata tra forme di segregazione culturale consolidate e separazione tra attività umane di terra e di mare. Questa divisione deve essere rivista per affrontare con urgenza le vaste trasformazioni in atto negli oceani.

Qui la presentazione digitale.

Rivolgendo lo sguardo su una Venezia senza tempo, sono anche le mete più tradizionali a stupire oggi. L’iconico Caffè Florian porta i suoi tavolini in Piazza, restituendo alla città uno dei principali scopi del luogo stesso: la condivisione. Le piazze storicamente sono il centro della città, occasione di ritrovo, di scambio merci, di chiacchiere. Forse, in questa nuova realtà, tra distanziamento sociale e coatta occupazione del suolo pubblico da parte del locali (per pura necessità) Piazza San Marco vedrà il suo suolo ripopolato.

Intramontabile è il Museo Olivetti nel vecchio edificio delle Procuratie sul bordo settentrionale della piazza. Lo show-room è stato progettato da Carlo Scarpa, uno dei più importanti architetti italiani del XX secolo, incaricato da Adriano Olivetti nel 1956, dopo aver ricevuto l'Olivetti Architecture Award. Tra le produzioni Olivetti in mostra, si segnalano chicche architettoniche come la scultorea porta di ingresso e la fluttuante scala che collega il piano terrra al primo piano. Lastre di pietra collegate tra loro con un perno centrale in ottone.

Infine, nel ghetto ebraico, ha da poco riaperto La Casa dei Tre Oci, così chiamata per le tre grandi finestre che si affacciano sul bacino di San Marco, rendendo inconfondibile il palazzo. Recentemente restaurato dalla Fondazione di Venezia, il palazzo, con la direzione artistica del critico di fotografia Denis Curti, ospita mostre fotografiche ed iniziative volte alla promozione di un linguaggio contemporaneo. Ora e fino al 10 Gennaio 2021 si può vedere JACQUES HENRI LARTIGUE. L'INVENZIONE DELLA FELICITA'. FOTOGRAFIE che racchiude 120 immagini dell’autore francese di cui 55 inedite. Latrigue deve la scoperta del suo lavoro ad una importante retrospettiva al MoMA di New York nel 1963. Da lì, un successo ormai in tarda età, ma che gli ha permesso di essere riconosciuto in tutto il mondo.

May 26, 20171 Comment

A “caccia” di nuovi spazi espositivi!

È sempre piacevole andare a spasso per il centro di Milano e tra un panzerotto di Luini, un salto alla Rinascente e un selfie al Duomo, finire tra i corridoi dell’ultima mostra in corso a Palazzo Reale. A volte, però, è bello anche andare oltre le mostre mainstream, abbandonare quel senso di sicurezza che un’esposizione "di grido" ti può dare, cercando di scoprire nelle numerose realtà espositive milanesi nate di recente, che cosa c’è di interessante e rompere così le mura della tanto amata comfort zone. Lo facciamo prenotando viaggi “zaino in spalla” in Thailandia, perché non farlo anche con i musei?!

Così ho fatto, e ho deciso di avventurarmi con un’amica nell’immensa area degli ex Frigoriferi Milanesi dove adesso ha sede la Open Care. Essa si occupa di servizi per l’arte a tutto tondo e, dunque, non poteva proprio mancare un luogo in cui creare mostre molto ricercate e ben studiate, promuovendo il collezionismo privato e in cui esporre a scopo di valorizzazione e studio, le collezioni d’arte conservate proprio presso il loro stesso Caveau (il più grande d’Europa, btw).

Attualmente – e fino al 6 giugno – è in corso “IL CACCIATORE BIANCO / THE WHITE HUNTER”, una mostra che mira a farci riflettere sulle costruzioni mentali di noi occidentali riguardo alla civiltà africana e alle nostre pretese (nel corso della storia) di “civilizzarli” e “modernizzarli”. Ne risulta un percorso pieno di paradossi e contrasti, che la rendono estremamente dinamica e mai noiosa.

Inizialmente, viene preso in giro lo spettatore negli stereotipi di come viene visto il popolo africano, questo tramite l’opera di Pascale Marthine Tayou, che riproduce all’ingresso una sorta di capanna primordiale, allestita con souvenir di vario genere, ricostruzioni moderne di feticci africani, totem trasparenti, presumibilmente di vetro o simili e, dunque, che poco hanno a che fare con quelli originali.

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna, ph. Alessandra Di Consoli

L’ingresso è quindi da mero turista, nonostante si percepisca già la pungente ironia, ma è dalla sala successiva in poi che prende forma il significato del titolo “il cacciatore bianco”, con tutte le sue possibili accezioni e comincia a farsi sentire il peso del nostro passato, ricordandoci che noi storicamente siamo colonizzatori. Ecco che ci viene presentato un modellino della fabbrica FIAT che sarebbe dovuta essere costruita a Trpoli e un video “Pays Barbare”, che parla della pretesa della civiltà occidentale di portare a tutti i costi la nostra modernità in Africa.

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, ph. Daniele Pio Marzorati

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, Peter Friedl, ph. Daniele Pio Marzorati

Provocazioni ed immagini dal duplice significato sono il filo conduttore della mostra, che bisogna visitare con molta cura, prendendosi tutto il tempo necessario per cogliere il dualismo celato dietro ad ogni opera. Sicuramente di forte impatto è il video in cui si vedono accostate immagini di vasi aggiustati grossolanamente come fossero cuciti e immagini di vere e proprie suture di operazioni di chirurgia plastica, e vi consiglio di tenere a mente quel concetto di riparazione verace con ago e filo, perché lo si ritrova nelle opere successive dell’artista Nicholas Hlobo, che ha la capacità di ricamare con del filo di raso qualsiasi superficie.

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Un altro duplice concetto interessante, è quello presentato riproponendo la mostra sull’arte negra presentata alla Biennale di Venezia del ’22. In quel tempo l’intento era quello di presentare sculture di arte africana, in quanto arte e dunque con tutta la dignità del caso, non come fossero reperti archeologici o simboli religiosi di una lontana civiltà da studiare. Questa scelta ovviamente non venne colta dai più e venne criticata molto all’epoca, anche perché tale esposizione era  presentata dopo una retrospettiva dedicata a Canova ed alle sue magnifiche statue candide e perfette nella loro idealità. Un contrasto che forse risulterebbe troppo forte persino oggigiorno. 

Piano piano, il dialogo tra lo stereotipo occidentale della civiltà africana, e la capacità di giocare su di esso dell’arte africana stessa, continua e ci accompagna verso gli spazi finali della mostra, in cui ci si imbatte in una sorta di passerella tra degli arazzi meravigliosi, che si stagliano come manifesti di musei di arte contemporanea africana, in realtà mai esistiti. Il gioco prosegue con simpatiche parrucche che richiamano quelle solitamente utilizzate dalle donne di colore, ma che in questo caso riproducono la forma di Landmark occidentali

parrucche ed arazzi, ph. Daniele Pio Marzorati

parrucche ed arazzi, Meschac Gaba, ph. Daniele Pio Marzorati

Uno sguardo anche all’ultima opera, a sinistra della grande parete ricoperta di  sacchi di juta logori (no, non è un Burri!), essa presenta una costruzione di specchietti che ci ricorda il modellino di un grattacielo, in realtà la metafora è forte: quella di togliere lo strato di pelle nera, per far emergere il nostro pallido volto bianco e costringerci a metterci faccia a faccia con la nostra coscienza, è candida come la nostra pelle?

Se siete curiosi di vedere tutto ciò con i vostri occhi, non vi resta altro che recarvi al FM CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA in via Piranesi, 10 dal mercoledì al sabato, dalle 14.00 alle 19.30, INGRESSO GRATUITO!!

Aperture straordinarie in occasione della Milano Photo Week:

Lunedì 5 giugno dalle 14.00 alle 19.30

Martedì 6 giugno dalle 14.00 alle 23.00

March 25, 2017No Comments

Il racconto dei racconti!

Forse era destino che io andassi a vedere Steve McCurry. Forse gli dèi l'avevano premeditato o forse era il mio subconscio che premeva per mostrarmela. Fatto sta, che ho finalmente rotto il ghiaccio con il famigerato fotografo, presso il Museo Civico di Brescia.

La prima volta che sentii parlare di una sua mostra fu lo scorso anno, quando lui diede inizio alle danze alla rinnovata Villa Reale di Monza. Fece il boom di biglietti staccati ed entusiasmò tutti. Quel volto della bambina afgana dagli occhi di ghiaccio era sulla bocca di tutti. Io temporeggiai per qualche assurdo motivo, e me la persi.

Poi si fece Ottobre ed io ero in Puglia con le amiche per una invidiatissima settimana di puro relax e venni sorpresa da quella stessa mostra ad Otranto, nel museo del Castello della città. Sorrisi e la buttai lí con le amiche, ma era ora di pranzo e vinse il cibo.

Poi, il weekend scorso mi chiamò un'amica dicendo: "a Brescia c'è la mostra fotografica di Steve Mccurry, Artebella sarebbe così gentile da accompagnarmi?" A quel punto pensai - è destino - ed accettai.

La mostra, tenuta al Museo Civico di Santa Giulia, si chiama "Leggere", allestita in occasione di Brescia Photo Festival 2017, è un viaggio emozionale all'interno della lettura. Si viaggia accompagnati dalle meravigliose fotografie dell'artista, che lasciano senza fiato. Io personalmente ci ho messo una vita a girarla tutta, perché venivo catturata da ogni scatto e ci rimanevo intrappolata come un insetto nella tela del ragno. Sono magnetici i suoi ritratti e se inizi ad osservarne i dettagli, non te ne stacchi più. Mi venivano a recuperare gli amici, che per capire dove fossi, incalzavano al telefono:

  • "Ele ti abbiamo persa, dove sei rimasta?"

- "Incollata all'uomo anziano che legge"

  • "Ce ne sono giusto un paio, puoi essere più specifica?!"

- "Non lo so, uno di quelli nella prima sala"

  • "Ah! Noi siamo alla terza. Resta dove sei, arriviamo."

Brescia Photo Festival - Steve McCurry, Leggere

Brescia Photo Festival - Steve McCurry, Leggere

A tenerti per mano, poi, ci sono le scritte. Per tutta la mostra compaiono citazioni di personaggi importanti della letteratura mondiale, che esprimono a parole loro la bellezza e l'importanza di leggere. Il bello è che queste frasi sono stampate su supporti bianchi in simil-stoffa e tu ti ci puoi buttare in mezzo, le puoi toccare, le puoi muovere, puoi interagire con loro, ci puoi giocare.

Steve McCurry è la priorità alla quale non si può rinunciare, ma vale la pena anche di ammirare le altre due mostre in corso: Magnum's First, le prime produzioni dei fotografi della più importante agenzia di fotogiornalismo di tutti i tempi. La Premiére Fois: gli scatti che hanno identificato lo stile e reso famosi in tutto il mondo i fotografi della Magnum.

Buona visita! #scattirubati

March 14, 20171 Comment

Manet o non Manet, questo è il problema!

“Manet e la Parigi moderna” è il titolo dell'ultima mostra inaugurata a Palazzo Reale di Milano e dedicata al noto pittore francese.

Forse, però, sarebbe stato più adatto chiamarla “La Parigi moderna, gli impressionisti e Manet”. Perché dell’artista in questione, a mio parere, c’è ben poco.

Manet è uno dei più grandi nomi della pittura francese della seconda metà dell’800. Un rivoluzionario che aprì la strada a quei pazzi che furono gli Impressionisti. Uomini poco acclamati dai propri contemporanei, cresciuti in un periodo storico in cui l’Artista stava perdendo la sua originaria funzione, senza sapere più bene quale fosse il suo ruolo nella società, cosa dipingere e per chi.

Questi uomini, la cui maggior parte acquisì fama solo post-mortem, ebbero il coraggio di dipingere per se stessi. Di dipingere per curiosità. Di dipingere per amore.

Manet è stato un inconsapevole innovatore. Egli non si definiva tale e nemmeno veniva visto così dai suoi contemporanei. Era affascinato dalla luce nei dipinti di Giorgione e Tiziano, dalle tele di Velázquez, dall’uso dei colori di Goya.

Francisco Goya, Majas al balcone, 1808-1814

Francisco Goya, Majas al balcone, 1808-1814

Proprio a quest’ultimo si ispirò per realizzare Il Capolavoro esposto nella penultima sala, per il quale avrei volentieri pagato il biglietto anche solo per accedere unicamente a quell'opera.

Vi svelerò l’identità di tale bellezza più avanti, ora procediamo con ordine.

Le aspettative che si creano leggendo un nome così “di grido” sul cartellone pubblicitario sono davvero molte. Manet è conosciuto da tutti, se non per passione personale, sicuramente perché è una tappa fondamentale dello studio di storia dell’arte a scuola e talvolta capita persino, per distrazione e somiglianza fonetica, di confonderlo con Monet!

La mostra si apre con una contestualizzazione storica, dunque, molto apprezzabile ed utile per capire le tappe fondamentali della vita del pittore (qualora si fossero sbadatamente dimenticate le lezioni al Liceo).

Le sale affrontano svariati temi, dalla ritrattistica in cui è possibile ammirare la bella presunta amante dell’artista, Bertha Morisot (la quale compare come modella in moltissimi dipinti); alla pittura di cronaca in cui è interessante il dipinto che immortala la scena della fuga di Rochefort dalla colonia penale di Nuova Caledonia, in cui era stato rinchiuso per essersi opposto al regime di Napoleone III. Osservando questi dipinti sono numerosi gli spunti che balzano alla mente. È divertente vedere la moda del tempo e come alcuni accessori siano di nuovo in voga ed anche le citazioni artistiche sono innumerevoli.

Eva Gonzales, un palco al Théâtre des Italiens, 1874

Eva Gonzales, un palco al Théâtre des Italiens, 1874

Quando si parla di pittura che ritrae scene realmente accadute, romanzandole, non si può non pensare alla "Zattera della Medusa" di Theodore Gericault. Imbattendosi nel soffitto originario della sala dell’Opèra di Parigi affrescato da Lenepveu, è diretto il richiamo alla "Camera degli Sposi" del Mantegna a Mantova, per non parlare delle influenze reciproche tra gli stessi artisti di quel periodo, esplicitate durante tutto il percorso.

Edouard Manet, Fuga di Rochefort, 1881

Edouard Manet, Fuga di Rochefort, 1881

Théodore Gericault, La zattera della Medusa, 1818-19, Museo Louvre, Parigi

Théodore Gericault, La zattera della Medusa, 1818-19, Museo Louvre, Parigi

Dipinto originario del soffitto dell'Opéra di Parigi, Lenpveu, 1865

Dipinto originario del soffitto dell'Opéra di Parigi, Lenpveu, 1865

Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, Mantova, 1465-74

Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, Mantova, 1465-74

È infatti punto di forza della mostra, quello di effettuare numerosi confronti tra pittori dell’epoca, è curioso osservare soggetti simili resi con stili diversi. Ciò che invece delude è trovare tematiche sconnesse tra loro e a volte poco logiche. Vedere una sala dedicata al fiume “La Senna”, poi una all’architettura parigina del secolo e poi di nuovo all’Opèra di Parigi, per poi passare alle scene di vita mondana. Oppure, trovare nella sala che tratta le influenze spagnole di Manet, un quadro del tutto fuori tema. O ancora, imbattersi in sale senza neanche un’opera dell’autore a cui la mostra dovrebbe essere dedicata.

Il risultato è stato per me e i miei amici, sconfortante. Siamo andati a visitarla un giorno in pausa pranzo carichi di entusiasmo, sperando di vedere una retrospettiva di Manet e ci siamo ritrovati alla sua caccia al tesoro.

Come accennato all'inizio, l’unica sala che mi ha impressionata positivamente e che mi ha consolata dalla delusione maturata fino a quel momento, è quella dedicata ai candidi abiti delle Signore dell’epoca, in cui è esposta una tela incantevole: “Il balcone”.

Edouard Manet, Il balcone, 1868

Edouard Manet, Il balcone, 1868

Quest’opera è una vera gioia per gli occhi. La composizione della scena è equilibrata, ci sono tre figure al centro ed una sullo sfondo, incorniciate dalla ringhiera verdone del balcone e dalle persiane sempre di colore verde brillante. Lo sfondo è scuro, cupo e ritrae l’interno di un’abitazione inghiottito dalle ombre, mentre le tre figure in primo piano si stagliano come macchie di colore chiaro. Le due donne sono pallide e luminose, l’uomo è vestito di scuro. La delicatezza degli abiti candidi e quasi evanescenti contrasta con la pittura materica tipica dell’artista. In tutti i quadri di Manet è possibile ammirare come la profondità della scena e la concretezza dei soggetti ritratti non siano dati da precise regole di disegno, talvolta completamente ignorate, neppure dalla prospettiva e tantomeno da ombreggiature, quasi del tutto assenti. Quel senso di palpabilità è dato interamente dal colore. Nelle tele di Manet è il colore che fa tutto. Questo lo si può osservare dalle sue peonie bianche nella sala delle nature morte, dal giovane pifferaio (icona della mostra) e dagli abiti di tutti i suoi soggetti.

Edouard Manet, Ramo di Peonie bianche, 1864

Edouard Manet, Ramo di Peonie bianche, 1864

Questo aspetto è enfatizzato a tal punto da far sembrare le figure bidimensionali, senza però perdere neanche un briciolo di contatto con la realtà. Tutto è estremamente vivo e vero.

Altro incantevole dettaglio de Il balcone sono gli occhi. Solo quelli della figura in primo piano sono ben definiti e ci osservano sfacciati (gli stessi occhi della famosa Olympia, che scandalizzò i suoi contemporanei). Gli altri sono appena accennati. Ella è probabilmente ancora Bertha Morisot, musa dell’artista.

Mentre le altre sale le abbandonavo più o meno indifferente, da questa penultima non me ne sarei mai più voluta andare. Se la maggior parte delle opere provengono dal Museè d’Orsay di Parigi, non rimane altro da fare che comprare subito il biglietto aereo per vedere il resto!

March 5, 2017No Comments

Keith Haring, solo colore e divertimento?

Quando si decide con leggerezza di andare a visitare la mostra di Keith Haring, probabilmente non si ha ancora piena consapevolezza della profondità delle tematiche trattate dall’artista. Le grafiche estremamente colorate e divertenti da anni ingannano l’osservatore illudendolo di essere un’arte frivola e decorativa, adatta a star sui cappellini, sulle magliette, sulle tazze da colazione. Eppure l’artista statunitense non può essere ridotto alla giocosità con cui si presentano le sue opere. L’arte da lui espressa ha a che fare con l’infinito, con quei valori umani profondi, che sembrano aver radici nei secoli. Con la sua semplicità si aggrappa alla forza di un messaggio universale, capace di essere letto da diverse culture e con l’eternità propria di quei pensieri sempre veri, sempre autentici, sempre sinceri.

Keith Haring, UNTITLED 1984, smalto su legno intagliato

Keith Haring, UNTITLED 1984, smalto su legno intagliato

“Keith Haring – about art” è la tanto attesa retrospettiva, che porta in scena a Milano uno dei più famosi ed apprezzati graffitisti di tutti i tempi. Capire come mai la sua arte sia così diffusa e conosciuta in tutto il mondo, è davvero intuitivo. Le opere hanno la capacità di creare un forte legame con lo spettatore fin dal primo sguardo. Ciò che attrae inizialmente sono i colori: accesi, forti, fluorescenti, maleducati, irriverenti. Subito dopo colpiscono i segni. Sulla tela sembra formarsi un labirinto nel quale perdersi. Mentre si segue una linea nera con lo sguardo ci si accorge che è solo una parte di un tutto e che la visione di insieme crea delle immagini precise, dei simboli che portano con sé svariati messaggi, che ho trovato divertente decifrare con gli amici. Allontanandosi dalla tela, come fossero dipinti impressionisti, si scorgono i soggetti: omini dal sesso non identificato, neutro: né uomini, né donne, o forse sia uomini, sia donne; angeli con grandi ali spiegate, bambini, omini col pancione, simboli fallici. È tutto un ordinato intreccio di figure precise, ma dall’interpretazione molteplice.

Keith Haring, UNTITLED

Keith Haring, UNTITLED

Sono diverse le battaglie combattute dall’artista, prima fra tutte quella contro l’omofobia al quale egli dedica l’opera “San Sebastiano”. Considerato la prima icona gay, le cui frecce-aeroplano sembrano quasi essere dei segni premonitori.

Keith Haring, St. Sebastian

Keith Haring, St. Sebastian

Sono altrettanti i messaggi positivi che le sue opere danno: amore, fratellanza e famiglia sembrano essere i rimandi più frequenti delle sue metafore.

Keith Haring, The Tree of Life

Keith Haring, The Tree of Life

Le sale sono affascianti e divertenti allo stesso tempo. Il lavoro curatoriale e l’allestimento, impeccabili. Anche l'illuminazione è fenomenale, con i faretti profilati (la luce inquadra precisamente solo l'opera, seguendone la forma).

Keith Haring, Palazzo Reale

Keith Haring, Palazzo Reale

Ogni sala affronta una tematica diversa, sviscerando le maggiori influenze che hanno segnato il lavoro dell’artista: dai miti greci, alla storia romana (le mie due sale preferite sono quelle ad essi dedicate), a Picasso, a Klimt, a Warhol, fino alla sua grande passione d’infanzia: i cartoons.

Keith Haring, Medusa

Keith Haring, Medusa

Keith Haring, serpente

Keith Haring, Serpente

La mostra vuole riportare l’attenzione su alcune tematiche cruciali che stanno dietro alla produzione artistica di Keith Haring, abbinando sapientemente cultura ed intrattenimento. Risulta così una mostra estremamente interessante, piacevole da visitare e che offre innumerevoli spunti per scambiare opinioni con gli amici visitandola in compagnia. Consigliatissima!

Inoltre, sembra proprio che le capacità premonitrici dell'artista, non siano svanite! Vi ricorda qualcosa questo quadro?

Keith Haring, scimmia

Keith Haring, Scimmia

http://www.palazzorealemilano.it/wps/portal/luogo/palazzoreale/mostre/inCorso/KEITH_HARING

http://www.pictaram.com/user/artebella.it/4110431485

 

February 23, 2017No Comments

Osservando l’Osservatorio: che osservazioni! (firmate Prada, ovviamente)

Finalmente sono riuscita ad andare alla scoperta del nuovissimo spazio espositivo milanese firmato Prada: l’Osservatorio.
Inaugurato il 21 Dicembre 2016 si occupa di fotografia ed espone i nuovi linguaggi visivi che la utilizzano in vari modi.

Questo spazio mi ha incuriosita fin dal principio, grazie alla location spettacolare (5° e 6° piano di uno degli edifici centrali della galleria Vittorio Emanuele). Le aspettative che si creano sono davvero alte e sorge spontaneo chiedersi se i contenuti della mostra siano effettivamente all’altezza del contesto in cui si trovano.

Innanzitutto, bisogna trovare l’ingresso. Un’operazione che può sembrare molto semplice, ma che se non si ha ben chiaro cosa si sta cercando, non lo è affatto.

E' situata nella prima metà della galleria (arrivando da piazza Duomo) e si trova sulla destra, poco prima delle vetrine di Prada uomo. Fin da subito si fa sentire il peso del lussuoso contesto: ad accoglierti c’è il listino prezzi di Marchesi, la storica pasticceria di Milano situata nello stesso palazzo, con elegante ascensore di marmo verde, raffinato e piccino.

Ingresso Fondazione Prada, Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Ingresso Fondazione Prada, Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Una volta arrivati il personale è molto cordiale e ben disposto a fornire qualsiasi spiegazione. La mostra in scena è “Give me Yesterday”, un insieme di lavori di 14 artisti che raccontano le loro personalissime storie, accomunate solo dal medium utilizzato: la fotografia, e dal modo con cui questa viene utilizzata. Per poter comprendere tutto ciò è necessario munirsi della brochure, che fornisce oltre ad autore e titolo delle opere, anche qualche concetto chiave per poter comprendere ed apprezzare ciò che si sta per guardare.

Give me Yesterday, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Give me Yesterday, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Le opere esposte al primo piano sono le più bizzarre, passatemi il termine. Si rimane forse un po’ straniti osservando scatti provocatori di una signora non più tanto giovane, che posa semi-nuda con sfacciata disinvoltura. Leggendo si scopre essere la madre dell’artista e che l’effetto desiderato è proprio quello di sdoganare i tabù sulla sessualità. Incuriosisce anche il video che proietta album fotografici di famiglia sulla base di “Day-O (The Banana Boat Song)” di Harry Belafonte https://genius.com/Harry-belafonte-day-o-the-banana-boat-song-lyrics, canto popolare giamaicano innalzato dai lavoratori serali nei campi di banane o, per gli amanti dell’hip-hop come me, l’intro della canzone “6 foot 7 foot” di Lil Wayne https://youtu.be/c7tOAGY59uQ, che speri tanto parta a tutto volume.

Leigh Ledare, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Leigh Ledare, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Con la seconda sala è più facile familiarizzare, offre immediati spunti di riflessione ed occasioni di dialogo, se si è in compagnia. Interessante è il lavoro di una ragazza bolognese con le polaroid: "Ho preso le distanze", in cui ritrae amici e famigliari tanto distanti dall’obiettivo quanto è confidenziale il loro rapporto con l’autrice. Oppure gli scarabocchi con Photoshop di Kenta Cobayashi, che mi hanno immediatamente ricordato quando da piccola pasticciavo con Paint. Confortante è la linea di orizzonte continua fatta accostando i paesaggi di Puglia e Sardegna, ognuno di noi ha a cuore un orizzonte e questa serie di fotografie ce lo ricordano.

"Orizzonte in Italia" Antonio Rovaldi, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

"Orizzonte in Italia" Antonio Rovaldi, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Unica pecca di tutta la mostra? Essendo le opere concettuali ed a volte “difficili”, si rischia di passare più tempo ad ammirare l’incantevole struttura della cupola, che sembra un delicato pizzo in vetro e ferro, che a guardare la mostra in sé.

Cupola della Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Cupola della Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Immancabile dopo la visita il caffè da Marchesi al piano inferiore, 5 € per un caffè (se volete potete ordinare anche solo un bicchiere d’acqua) e la corsa in piazza Duomo a vedere le palme.

Palme in Piazza Duomo, Milano, Italia

Palme in Piazza Duomo, Milano, Italia

November 13, 20162 Comments

Tranquille, anche nel 1600 avevano la cellulite!

È in corso a Palazzo Reale la mostra di Pietro Paolo Rubens, nome italianizzato per l'occasione, con il fine di enfatizzare il rapporto tra il pittore e l'arte italiana.

Il cavallo di battaglia dell'intero percorso è la prima sala, in essa sono esposti i ritratti che raffigurano gli affetti di Rubens, compreso il suo più famoso autoritratto, la cui attribuzione, però, non è ancora certa (si tratta comunque di un capolavoro).

Mentre giravo tra le prime sale un pensiero mi è saltato subito alla mente: quello di sentirmi osservata. Gli sguardi delle persone ritratte sono talmente vivaci e concreti da sembrare fissarti in maniera tutt'altro che vuota, bensì penetrante. Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, sicuramente Rubens è stato in grado di cogliere l'essenza dei suoi soggetti.

La mostra vuole mettere in scena il rapporto del pittore fiammingo con l'Italia e per farlo si serve di innumerevoli paragoni con statue antiche ed artisti di quel tempo, tali per cui la nostra capacità di analisi è continuamente stimolata in un fervido gioco di comparazioni e confronti.

Il percorso è tematico e non cronologico, ragion per cui si rimbalza da una bellezza più ideale, come quella del magnifico “Torso del Belvedere” (al quale si ispirò anche Michelangelo), ad una più drammatica scena di Saturno che divora i suoi figli (che ci evoca immediatamente la riproduzione, ancor più brutale, di Goya), ad una bellezza molto più realistica e meno idealizzata di “Susanna e i vecchioni”.

La figura femminile è abbondante, ha le cosce piene ed un volto paffuto. A differenza delle rappresentazioni di nudo precedenti, qui compare “il difetto”. Rubens con estrema modernità ha voluto rappresentare una donna vera, abbandonando così l'idillio della figura classica, pur conservandone la bellezza. Messaggio da non sottovalutare nella società odierna, in cui si vuole sempre più rendere al mondo esterno un'immagine di sé ideale (aiutati, o forse rovinati, da una tecnologia che lo rende possibile con mezzi semplici e alla portata di tutti).

Lo stesso soggetto è stato riprodotto da Artemisia Gentileschi, unica pittrice donna (a noi nota) di quel tempo, della quale, in questi giorni, è proposto un meraviglioso documentario su Sky Arte. Consiglio a chi ne fosse in possesso di non lasciarselo scappare.

Se siete affascinati dall'arte antica e desiderosi di vederne un grande esempio, la mostra di Rubens è sicuramente un'occasione da non perdere. Sfrontati e quasi sfacciati risultano gli sguardi dei ritratti e simboliche, ma allo stesso tempo disilluse, sono le sue allegorie.

artebella unisce professionisti del settore artistico e creativo con media di tendenza per creare contenuti innovativi

Per informazioni sugli artisti o per richiedere una consulenza  scrivi a ciao@artebella.it

newsletter iscriviti alla newsletter di artebella 

2020 © ARTEBELLA / Tutti i diritti riservati