May 26, 20171 Comment

A “caccia” di nuovi spazi espositivi!

È sempre piacevole andare a spasso per il centro di Milano e tra un panzerotto di Luini, un salto alla Rinascente e un selfie al Duomo, finire tra i corridoi dell’ultima mostra in corso a Palazzo Reale. A volte, però, è bello anche andare oltre le mostre mainstream, abbandonare quel senso di sicurezza che un’esposizione "di grido" ti può dare, cercando di scoprire nelle numerose realtà espositive milanesi nate di recente, che cosa c’è di interessante e rompere così le mura della tanto amata comfort zone. Lo facciamo prenotando viaggi “zaino in spalla” in Thailandia, perché non farlo anche con i musei?!

Così ho fatto, e ho deciso di avventurarmi con un’amica nell’immensa area degli ex Frigoriferi Milanesi dove adesso ha sede la Open Care. Essa si occupa di servizi per l’arte a tutto tondo e, dunque, non poteva proprio mancare un luogo in cui creare mostre molto ricercate e ben studiate, promuovendo il collezionismo privato e in cui esporre a scopo di valorizzazione e studio, le collezioni d’arte conservate proprio presso il loro stesso Caveau (il più grande d’Europa, btw).

Attualmente – e fino al 6 giugno – è in corso “IL CACCIATORE BIANCO / THE WHITE HUNTER”, una mostra che mira a farci riflettere sulle costruzioni mentali di noi occidentali riguardo alla civiltà africana e alle nostre pretese (nel corso della storia) di “civilizzarli” e “modernizzarli”. Ne risulta un percorso pieno di paradossi e contrasti, che la rendono estremamente dinamica e mai noiosa.

Inizialmente, viene preso in giro lo spettatore negli stereotipi di come viene visto il popolo africano, questo tramite l’opera di Pascale Marthine Tayou, che riproduce all’ingresso una sorta di capanna primordiale, allestita con souvenir di vario genere, ricostruzioni moderne di feticci africani, totem trasparenti, presumibilmente di vetro o simili e, dunque, che poco hanno a che fare con quelli originali.

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna

Pascale Marthine Tayou, ingresso mostra, capanna, ph. Alessandra Di Consoli

L’ingresso è quindi da mero turista, nonostante si percepisca già la pungente ironia, ma è dalla sala successiva in poi che prende forma il significato del titolo “il cacciatore bianco”, con tutte le sue possibili accezioni e comincia a farsi sentire il peso del nostro passato, ricordandoci che noi storicamente siamo colonizzatori. Ecco che ci viene presentato un modellino della fabbrica FIAT che sarebbe dovuta essere costruita a Trpoli e un video “Pays Barbare”, che parla della pretesa della civiltà occidentale di portare a tutti i costi la nostra modernità in Africa.

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, ph. Daniele Pio Marzorati

progetto per stabilimento FIAT a Tripoli, Peter Friedl, ph. Daniele Pio Marzorati

Provocazioni ed immagini dal duplice significato sono il filo conduttore della mostra, che bisogna visitare con molta cura, prendendosi tutto il tempo necessario per cogliere il dualismo celato dietro ad ogni opera. Sicuramente di forte impatto è il video in cui si vedono accostate immagini di vasi aggiustati grossolanamente come fossero cuciti e immagini di vere e proprie suture di operazioni di chirurgia plastica, e vi consiglio di tenere a mente quel concetto di riparazione verace con ago e filo, perché lo si ritrova nelle opere successive dell’artista Nicholas Hlobo, che ha la capacità di ricamare con del filo di raso qualsiasi superficie.

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Nicholas Hlobo, Umakadenethwa, 2004-2007, legno, nastro e camera d'aria, cm h 190. Collezione Bianca Attolico. Courtesy Extraspazio - Roma

Un altro duplice concetto interessante, è quello presentato riproponendo la mostra sull’arte negra presentata alla Biennale di Venezia del ’22. In quel tempo l’intento era quello di presentare sculture di arte africana, in quanto arte e dunque con tutta la dignità del caso, non come fossero reperti archeologici o simboli religiosi di una lontana civiltà da studiare. Questa scelta ovviamente non venne colta dai più e venne criticata molto all’epoca, anche perché tale esposizione era  presentata dopo una retrospettiva dedicata a Canova ed alle sue magnifiche statue candide e perfette nella loro idealità. Un contrasto che forse risulterebbe troppo forte persino oggigiorno. 

Piano piano, il dialogo tra lo stereotipo occidentale della civiltà africana, e la capacità di giocare su di esso dell’arte africana stessa, continua e ci accompagna verso gli spazi finali della mostra, in cui ci si imbatte in una sorta di passerella tra degli arazzi meravigliosi, che si stagliano come manifesti di musei di arte contemporanea africana, in realtà mai esistiti. Il gioco prosegue con simpatiche parrucche che richiamano quelle solitamente utilizzate dalle donne di colore, ma che in questo caso riproducono la forma di Landmark occidentali

parrucche ed arazzi, ph. Daniele Pio Marzorati

parrucche ed arazzi, Meschac Gaba, ph. Daniele Pio Marzorati

Uno sguardo anche all’ultima opera, a sinistra della grande parete ricoperta di  sacchi di juta logori (no, non è un Burri!), essa presenta una costruzione di specchietti che ci ricorda il modellino di un grattacielo, in realtà la metafora è forte: quella di togliere lo strato di pelle nera, per far emergere il nostro pallido volto bianco e costringerci a metterci faccia a faccia con la nostra coscienza, è candida come la nostra pelle?

Se siete curiosi di vedere tutto ciò con i vostri occhi, non vi resta altro che recarvi al FM CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA in via Piranesi, 10 dal mercoledì al sabato, dalle 14.00 alle 19.30, INGRESSO GRATUITO!!

Aperture straordinarie in occasione della Milano Photo Week:

Lunedì 5 giugno dalle 14.00 alle 19.30

Martedì 6 giugno dalle 14.00 alle 23.00

March 25, 2017No Comments

Il racconto dei racconti!

Forse era destino che io andassi a vedere Steve McCurry. Forse gli dèi l'avevano premeditato o forse era il mio subconscio che premeva per mostrarmela. Fatto sta, che ho finalmente rotto il ghiaccio con il famigerato fotografo, presso il Museo Civico di Brescia.

La prima volta che sentii parlare di una sua mostra fu lo scorso anno, quando lui diede inizio alle danze alla rinnovata Villa Reale di Monza. Fece il boom di biglietti staccati ed entusiasmò tutti. Quel volto della bambina afgana dagli occhi di ghiaccio era sulla bocca di tutti. Io temporeggiai per qualche assurdo motivo, e me la persi.

Poi si fece Ottobre ed io ero in Puglia con le amiche per una invidiatissima settimana di puro relax e venni sorpresa da quella stessa mostra ad Otranto, nel museo del Castello della città. Sorrisi e la buttai lí con le amiche, ma era ora di pranzo e vinse il cibo.

Poi, il weekend scorso mi chiamò un'amica dicendo: "a Brescia c'è la mostra fotografica di Steve Mccurry, Artebella sarebbe così gentile da accompagnarmi?" A quel punto pensai - è destino - ed accettai.

La mostra, tenuta al Museo Civico di Santa Giulia, si chiama "Leggere", allestita in occasione di Brescia Photo Festival 2017, è un viaggio emozionale all'interno della lettura. Si viaggia accompagnati dalle meravigliose fotografie dell'artista, che lasciano senza fiato. Io personalmente ci ho messo una vita a girarla tutta, perché venivo catturata da ogni scatto e ci rimanevo intrappolata come un insetto nella tela del ragno. Sono magnetici i suoi ritratti e se inizi ad osservarne i dettagli, non te ne stacchi più. Mi venivano a recuperare gli amici, che per capire dove fossi, incalzavano al telefono:

  • "Ele ti abbiamo persa, dove sei rimasta?"

- "Incollata all'uomo anziano che legge"

  • "Ce ne sono giusto un paio, puoi essere più specifica?!"

- "Non lo so, uno di quelli nella prima sala"

  • "Ah! Noi siamo alla terza. Resta dove sei, arriviamo."
Brescia Photo Festival - Steve McCurry, Leggere

Brescia Photo Festival - Steve McCurry, Leggere

A tenerti per mano, poi, ci sono le scritte. Per tutta la mostra compaiono citazioni di personaggi importanti della letteratura mondiale, che esprimono a parole loro la bellezza e l'importanza di leggere. Il bello è che queste frasi sono stampate su supporti bianchi in simil-stoffa e tu ti ci puoi buttare in mezzo, le puoi toccare, le puoi muovere, puoi interagire con loro, ci puoi giocare.

Steve McCurry è la priorità alla quale non si può rinunciare, ma vale la pena anche di ammirare le altre due mostre in corso: Magnum's First, le prime produzioni dei fotografi della più importante agenzia di fotogiornalismo di tutti i tempi. La Premiére Fois: gli scatti che hanno identificato lo stile e reso famosi in tutto il mondo i fotografi della Magnum.

Buona visita! #scattirubati

March 14, 20171 Comment

Manet o non Manet, questo è il problema!

“Manet e la Parigi moderna” è il titolo dell'ultima mostra inaugurata a Palazzo Reale di Milano e dedicata al noto pittore francese.

Forse, però, sarebbe stato più adatto chiamarla “La Parigi moderna, gli impressionisti e Manet”. Perché dell’artista in questione, a mio parere, c’è ben poco.

Manet è uno dei più grandi nomi della pittura francese della seconda metà dell’800. Un rivoluzionario che aprì la strada a quei pazzi che furono gli Impressionisti. Uomini poco acclamati dai propri contemporanei, cresciuti in un periodo storico in cui l’Artista stava perdendo la sua originaria funzione, senza sapere più bene quale fosse il suo ruolo nella società, cosa dipingere e per chi.

Questi uomini, la cui maggior parte acquisì fama solo post-mortem, ebbero il coraggio di dipingere per se stessi. Di dipingere per curiosità. Di dipingere per amore.

Manet è stato un inconsapevole innovatore. Egli non si definiva tale e nemmeno veniva visto così dai suoi contemporanei. Era affascinato dalla luce nei dipinti di Giorgione e Tiziano, dalle tele di Velázquez, dall’uso dei colori di Goya.

Francisco Goya, Majas al balcone, 1808-1814

Francisco Goya, Majas al balcone, 1808-1814

Proprio a quest’ultimo si ispirò per realizzare Il Capolavoro esposto nella penultima sala, per il quale avrei volentieri pagato il biglietto anche solo per accedere unicamente a quell'opera.

Vi svelerò l’identità di tale bellezza più avanti, ora procediamo con ordine.

Le aspettative che si creano leggendo un nome così “di grido” sul cartellone pubblicitario sono davvero molte. Manet è conosciuto da tutti, se non per passione personale, sicuramente perché è una tappa fondamentale dello studio di storia dell’arte a scuola e talvolta capita persino, per distrazione e somiglianza fonetica, di confonderlo con Monet!

La mostra si apre con una contestualizzazione storica, dunque, molto apprezzabile ed utile per capire le tappe fondamentali della vita del pittore (qualora si fossero sbadatamente dimenticate le lezioni al Liceo).

Le sale affrontano svariati temi, dalla ritrattistica in cui è possibile ammirare la bella presunta amante dell’artista, Bertha Morisot (la quale compare come modella in moltissimi dipinti); alla pittura di cronaca in cui è interessante il dipinto che immortala la scena della fuga di Rochefort dalla colonia penale di Nuova Caledonia, in cui era stato rinchiuso per essersi opposto al regime di Napoleone III. Osservando questi dipinti sono numerosi gli spunti che balzano alla mente. È divertente vedere la moda del tempo e come alcuni accessori siano di nuovo in voga ed anche le citazioni artistiche sono innumerevoli.

Eva Gonzales, un palco al Théâtre des Italiens, 1874

Eva Gonzales, un palco al Théâtre des Italiens, 1874

Quando si parla di pittura che ritrae scene realmente accadute, romanzandole, non si può non pensare alla "Zattera della Medusa" di Theodore Gericault. Imbattendosi nel soffitto originario della sala dell’Opèra di Parigi affrescato da Lenepveu, è diretto il richiamo alla "Camera degli Sposi" del Mantegna a Mantova, per non parlare delle influenze reciproche tra gli stessi artisti di quel periodo, esplicitate durante tutto il percorso.

Edouard Manet, Fuga di Rochefort, 1881

Edouard Manet, Fuga di Rochefort, 1881

Théodore Gericault, La zattera della Medusa, 1818-19, Museo Louvre, Parigi

Théodore Gericault, La zattera della Medusa, 1818-19, Museo Louvre, Parigi

Dipinto originario del soffitto dell'Opéra di Parigi, Lenpveu, 1865

Dipinto originario del soffitto dell'Opéra di Parigi, Lenpveu, 1865

Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, Mantova, 1465-74

Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, Mantova, 1465-74

È infatti punto di forza della mostra, quello di effettuare numerosi confronti tra pittori dell’epoca, è curioso osservare soggetti simili resi con stili diversi. Ciò che invece delude è trovare tematiche sconnesse tra loro e a volte poco logiche. Vedere una sala dedicata al fiume “La Senna”, poi una all’architettura parigina del secolo e poi di nuovo all’Opèra di Parigi, per poi passare alle scene di vita mondana. Oppure, trovare nella sala che tratta le influenze spagnole di Manet, un quadro del tutto fuori tema. O ancora, imbattersi in sale senza neanche un’opera dell’autore a cui la mostra dovrebbe essere dedicata.

Il risultato è stato per me e i miei amici, sconfortante. Siamo andati a visitarla un giorno in pausa pranzo carichi di entusiasmo, sperando di vedere una retrospettiva di Manet e ci siamo ritrovati alla sua caccia al tesoro.

Come accennato all'inizio, l’unica sala che mi ha impressionata positivamente e che mi ha consolata dalla delusione maturata fino a quel momento, è quella dedicata ai candidi abiti delle Signore dell’epoca, in cui è esposta una tela incantevole: “Il balcone”.

Edouard Manet, Il balcone, 1868

Edouard Manet, Il balcone, 1868

Quest’opera è una vera gioia per gli occhi. La composizione della scena è equilibrata, ci sono tre figure al centro ed una sullo sfondo, incorniciate dalla ringhiera verdone del balcone e dalle persiane sempre di colore verde brillante. Lo sfondo è scuro, cupo e ritrae l’interno di un’abitazione inghiottito dalle ombre, mentre le tre figure in primo piano si stagliano come macchie di colore chiaro. Le due donne sono pallide e luminose, l’uomo è vestito di scuro. La delicatezza degli abiti candidi e quasi evanescenti contrasta con la pittura materica tipica dell’artista. In tutti i quadri di Manet è possibile ammirare come la profondità della scena e la concretezza dei soggetti ritratti non siano dati da precise regole di disegno, talvolta completamente ignorate, neppure dalla prospettiva e tantomeno da ombreggiature, quasi del tutto assenti. Quel senso di palpabilità è dato interamente dal colore. Nelle tele di Manet è il colore che fa tutto. Questo lo si può osservare dalle sue peonie bianche nella sala delle nature morte, dal giovane pifferaio (icona della mostra) e dagli abiti di tutti i suoi soggetti.

Edouard Manet, Ramo di Peonie bianche, 1864

Edouard Manet, Ramo di Peonie bianche, 1864

Questo aspetto è enfatizzato a tal punto da far sembrare le figure bidimensionali, senza però perdere neanche un briciolo di contatto con la realtà. Tutto è estremamente vivo e vero.

Altro incantevole dettaglio de Il balcone sono gli occhi. Solo quelli della figura in primo piano sono ben definiti e ci osservano sfacciati (gli stessi occhi della famosa Olympia, che scandalizzò i suoi contemporanei). Gli altri sono appena accennati. Ella è probabilmente ancora Bertha Morisot, musa dell’artista.

Mentre le altre sale le abbandonavo più o meno indifferente, da questa penultima non me ne sarei mai più voluta andare. Se la maggior parte delle opere provengono dal Museè d’Orsay di Parigi, non rimane altro da fare che comprare subito il biglietto aereo per vedere il resto!

March 5, 2017No Comments

Keith Haring, solo colore e divertimento?

Quando si decide con leggerezza di andare a visitare la mostra di Keith Haring, probabilmente non si ha ancora piena consapevolezza della profondità delle tematiche trattate dall’artista. Le grafiche estremamente colorate e divertenti da anni ingannano l’osservatore illudendolo di essere un’arte frivola e decorativa, adatta a star sui cappellini, sulle magliette, sulle tazze da colazione. Eppure l’artista statunitense non può essere ridotto alla giocosità con cui si presentano le sue opere. L’arte da lui espressa ha a che fare con l’infinito, con quei valori umani profondi, che sembrano aver radici nei secoli. Con la sua semplicità si aggrappa alla forza di un messaggio universale, capace di essere letto da diverse culture e con l’eternità propria di quei pensieri sempre veri, sempre autentici, sempre sinceri.

Keith Haring, UNTITLED 1984, smalto su legno intagliato

Keith Haring, UNTITLED 1984, smalto su legno intagliato

“Keith Haring – about art” è la tanto attesa retrospettiva, che porta in scena a Milano uno dei più famosi ed apprezzati graffitisti di tutti i tempi. Capire come mai la sua arte sia così diffusa e conosciuta in tutto il mondo, è davvero intuitivo. Le opere hanno la capacità di creare un forte legame con lo spettatore fin dal primo sguardo. Ciò che attrae inizialmente sono i colori: accesi, forti, fluorescenti, maleducati, irriverenti. Subito dopo colpiscono i segni. Sulla tela sembra formarsi un labirinto nel quale perdersi. Mentre si segue una linea nera con lo sguardo ci si accorge che è solo una parte di un tutto e che la visione di insieme crea delle immagini precise, dei simboli che portano con sé svariati messaggi, che ho trovato divertente decifrare con gli amici. Allontanandosi dalla tela, come fossero dipinti impressionisti, si scorgono i soggetti: omini dal sesso non identificato, neutro: né uomini, né donne, o forse sia uomini, sia donne; angeli con grandi ali spiegate, bambini, omini col pancione, simboli fallici. È tutto un ordinato intreccio di figure precise, ma dall’interpretazione molteplice.

Keith Haring, UNTITLED

Keith Haring, UNTITLED

Sono diverse le battaglie combattute dall’artista, prima fra tutte quella contro l’omofobia al quale egli dedica l’opera “San Sebastiano”. Considerato la prima icona gay, le cui frecce-aeroplano sembrano quasi essere dei segni premonitori.

Keith Haring, St. Sebastian

Keith Haring, St. Sebastian

Sono altrettanti i messaggi positivi che le sue opere danno: amore, fratellanza e famiglia sembrano essere i rimandi più frequenti delle sue metafore.

Keith Haring, The Tree of Life

Keith Haring, The Tree of Life

Le sale sono affascianti e divertenti allo stesso tempo. Il lavoro curatoriale e l’allestimento, impeccabili. Anche l'illuminazione è fenomenale, con i faretti profilati (la luce inquadra precisamente solo l'opera, seguendone la forma).

Keith Haring, Palazzo Reale

Keith Haring, Palazzo Reale

Ogni sala affronta una tematica diversa, sviscerando le maggiori influenze che hanno segnato il lavoro dell’artista: dai miti greci, alla storia romana (le mie due sale preferite sono quelle ad essi dedicate), a Picasso, a Klimt, a Warhol, fino alla sua grande passione d’infanzia: i cartoons.

Keith Haring, Medusa

Keith Haring, Medusa

Keith Haring, serpente

Keith Haring, Serpente

La mostra vuole riportare l’attenzione su alcune tematiche cruciali che stanno dietro alla produzione artistica di Keith Haring, abbinando sapientemente cultura ed intrattenimento. Risulta così una mostra estremamente interessante, piacevole da visitare e che offre innumerevoli spunti per scambiare opinioni con gli amici visitandola in compagnia. Consigliatissima!

Inoltre, sembra proprio che le capacità premonitrici dell'artista, non siano svanite! Vi ricorda qualcosa questo quadro?

Keith Haring, scimmia

Keith Haring, Scimmia

http://www.palazzorealemilano.it/wps/portal/luogo/palazzoreale/mostre/inCorso/KEITH_HARING

http://www.pictaram.com/user/artebella.it/4110431485

 

February 23, 2017No Comments

Osservando l’Osservatorio: che osservazioni! (firmate Prada, ovviamente)

Finalmente sono riuscita ad andare alla scoperta del nuovissimo spazio espositivo milanese firmato Prada: l’Osservatorio.
Inaugurato il 21 Dicembre 2016 si occupa di fotografia ed espone i nuovi linguaggi visivi che la utilizzano in vari modi.

Questo spazio mi ha incuriosita fin dal principio, grazie alla location spettacolare (5° e 6° piano di uno degli edifici centrali della galleria Vittorio Emanuele). Le aspettative che si creano sono davvero alte e sorge spontaneo chiedersi se i contenuti della mostra siano effettivamente all’altezza del contesto in cui si trovano.

Innanzitutto, bisogna trovare l’ingresso. Un’operazione che può sembrare molto semplice, ma che se non si ha ben chiaro cosa si sta cercando, non lo è affatto.

E' situata nella prima metà della galleria (arrivando da piazza Duomo) e si trova sulla destra, poco prima delle vetrine di Prada uomo. Fin da subito si fa sentire il peso del lussuoso contesto: ad accoglierti c’è il listino prezzi di Marchesi, la storica pasticceria di Milano situata nello stesso palazzo, con elegante ascensore di marmo verde, raffinato e piccino.

Ingresso Fondazione Prada, Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Ingresso Fondazione Prada, Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Una volta arrivati il personale è molto cordiale e ben disposto a fornire qualsiasi spiegazione. La mostra in scena è “Give me Yesterday”, un insieme di lavori di 14 artisti che raccontano le loro personalissime storie, accomunate solo dal medium utilizzato: la fotografia, e dal modo con cui questa viene utilizzata. Per poter comprendere tutto ciò è necessario munirsi della brochure, che fornisce oltre ad autore e titolo delle opere, anche qualche concetto chiave per poter comprendere ed apprezzare ciò che si sta per guardare.

Give me Yesterday, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Give me Yesterday, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Le opere esposte al primo piano sono le più bizzarre, passatemi il termine. Si rimane forse un po’ straniti osservando scatti provocatori di una signora non più tanto giovane, che posa semi-nuda con sfacciata disinvoltura. Leggendo si scopre essere la madre dell’artista e che l’effetto desiderato è proprio quello di sdoganare i tabù sulla sessualità. Incuriosisce anche il video che proietta album fotografici di famiglia sulla base di “Day-O (The Banana Boat Song)” di Harry Belafonte https://genius.com/Harry-belafonte-day-o-the-banana-boat-song-lyrics, canto popolare giamaicano innalzato dai lavoratori serali nei campi di banane o, per gli amanti dell’hip-hop come me, l’intro della canzone “6 foot 7 foot” di Lil Wayne https://youtu.be/c7tOAGY59uQ, che speri tanto parta a tutto volume.

Leigh Ledare, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Leigh Ledare, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Con la seconda sala è più facile familiarizzare, offre immediati spunti di riflessione ed occasioni di dialogo, se si è in compagnia. Interessante è il lavoro di una ragazza bolognese con le polaroid: "Ho preso le distanze", in cui ritrae amici e famigliari tanto distanti dall’obiettivo quanto è confidenziale il loro rapporto con l’autrice. Oppure gli scarabocchi con Photoshop di Kenta Cobayashi, che mi hanno immediatamente ricordato quando da piccola pasticciavo con Paint. Confortante è la linea di orizzonte continua fatta accostando i paesaggi di Puglia e Sardegna, ognuno di noi ha a cuore un orizzonte e questa serie di fotografie ce lo ricordano.

"Orizzonte in Italia" Antonio Rovaldi, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

"Orizzonte in Italia" Antonio Rovaldi, Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Unica pecca di tutta la mostra? Essendo le opere concettuali ed a volte “difficili”, si rischia di passare più tempo ad ammirare l’incantevole struttura della cupola, che sembra un delicato pizzo in vetro e ferro, che a guardare la mostra in sé.

Cupola della Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Cupola della Galleria Vittorio Emanuele, Milano

Immancabile dopo la visita il caffè da Marchesi al piano inferiore, 5 € per un caffè (se volete potete ordinare anche solo un bicchiere d’acqua) e la corsa in piazza Duomo a vedere le palme.

Palme in Piazza Duomo, Milano, Italia

Palme in Piazza Duomo, Milano, Italia

December 11, 20162 Comments

Alla scoperta di Jean-Michel Basquiat!

È in mostra al MUDEC di Milano Jean-Michel Basquiat: uno dei pochi street artist ad aver portato la sua arte, dalla strada, alle più importanti ed inaccessibili gallerie di New York.

Lui: personaggio affascinante, dannato, viveva in un mondo tutto suo, è riuscito a stregare gli sterili galleristi bianchi, dipingendo pura arte nera, con richiami alle sue origini africane, mischiate agli occidentalissimi personaggi dei cartoons, per denunciare una società sbagliata, che strapagava le sue opere, acclamandolo come grande artista, ma che al contempo lo giudicava per il colore della pelle. Lui, da quella pelle, però, non poteva scappare - e ne era ossessionato: a volte si dipingeva di bianco, ma con i capelli rasta in acrilico nero. Poi con la corona, simbolo di potere, quale potere?

Questo il fervore con il quale si viene accolti in mostra, fin dal primo passo al suo interno: ogni pannello esplicativo ci fa conoscere un pezzo della brevissima, ma affascinante ed intensa vita di Basquiat.

Più esaustive di ogni spiegazione, sono, naturalmente, le opere.

In principio ci si ritrova davanti ad un linguaggio forte ed esplicito. Le sale vanno in ordine cronologico ed il periodo artistico iniziale racconta una denuncia sociale, firmata con il nome di SAMO: “same old shit”. Il colore vibrante usato, conferisce alle tele visibilità immediata ed una grande forza. Il suo tratto è deciso, non si può rimanere impassibili.

Dopo lo stupore, inizia il fascino. Compaiono una serie di segni ripetitivi, che messi assieme formano un codice, unico, di Jean-Michel Basquiat.

Ogni artista ha un codice tutto suo. Ricordo l’ultima volta in cui ho pensato di essere di fronte ad un preciso linguaggio simbolico, volto a comunicare un messaggio specifico da parte dell’artista; è stato alla mostra di uno dei più brillanti esponenti del surrealismo: Joan Mirò. Certi artisti creano un vero e proprio alfabeto, in cui ogni segno è simbolo di qualcosa di etereo. Non sempre il mittente siamo noi, talvolta il loro è uno sfogo personale, un modo per calmare la rabbia che hanno dentro e per gridare, come possono, i loro ideali. È forse questo il caso di Jean-Michel Basquiat?

Le opere successive diventano sempre più ermetiche ed indecifrabili, le parole ne diventano quasi protagoniste assolute - ed il mistero cresce.

Jean-Michel Basquiat, The Fake Leonardo

Jean-Michel Basquiat, The Fake Leonardo

Ogni sala ci fa scoprire sfumature della sua personalità. Razzismo, lotta al potere, ricordi dell’incidente avuto da bambino, nostalgia della terra d’origine: queste le tematiche presentate in tempera acrilica, o con l'evidenziatore su tela, su legno, su cartone, su porte, su finestre, su oggetti raccolti dalla strada.

Sono belli i colori, il linguaggio semplice ed efficace, il mistero che si cela dietro quel suo codice speciale, la grandezza delle tele che ti ci fa immergere dentro e la vivacità di quel suo giallo-ocra ricorrente, come un ricordo nostalgico di una terra lontana.

Jean-Michel Basquiat, untitled, 1982

Jean-Michel Basquiat, untitled, 1982

Risulta, così, una mostra bella, stimolante, breve, ma ricca, che lascia il giusto tempo allo spettatore di godersi appieno il linguaggio stonante di Basquiat e che si conclude in grande: l’ultima sala è dedicata ai duetti con Andy Warhol.

Michael Halsband, Andy Warhol&Jean-michel Basquiat

Michael Halsband, Andy Warhol&Jean-michel Basquiat

Unica nota negativa? Il prezzo. 12€ l’intero e 10€ il ridotto, da sommare ai 5€ di guida (sempre utile). Forse un po’ troppi per una mostra tutto sommato breve.

November 17, 2016No Comments

Tancredi, per una Venezia frammentata!

Cercate una buona scusa per andare a Venezia nel weekend? La Biennale quasi al termine e l'ebbrezza di potervi imbattere nella famosa acqua alta veneziana, non bastano? Beh, Da Peggy Guggenheim è in corso una retrospettiva entusiasmante su Tancredi!

Chi è Tancredi Parmeggiani?
Potrebbe non essere necessario conoscere la sua storia per capire che fosse uno dei più grandi artisti italiani del dopoguerra. È sufficiente sapere che è stato l'ultimo artista, assieme a nientepopodimeno che Jackson Pollock, ad aver sancito un vero e proprio contratto con madame Peggy Guggenheim.

Ciò che risulta senza ombra di dubbio molto affascinante, è il rapporto che Peggy instaurava con gli artisti che decideva di rappresentare. Desiderava per loro fama in tutto il mondo, era disposta a sponsorizzarli nonostante potessero sembrare del tutto folli agli occhi dei più e nulla poteva fermare la sua incredibile determinazione e fiducia nel suo infallibile fiuto.

Ma torniamo a noi.

La mostra su Tancredi ospitata nella sede della Peggy Guggenheim Collection è una sorta di ritorno a casa per il grande artista, che ha sempre considerato Venezia come la sua città del cuore. La sala più appagante è, infatti, quella ad essa dedicata. Grazie alla sovrapposizione di più strati del tipico segno frammentato, che Tancredi ha sviluppato nelle sue opere degli anni 50 del '900, si può vedere emergere una impalpabile Venezia. Tenue, nonostante i colori talvolta accesi; delicata, grazie al mare, alla pioggia e ai riflessi della città in questi e di questi nella città.

Tancredi Parmeggiani, a proposito di Venezia, 1958

Tancredi Parmeggiani, a proposito di Venezia, 1958

Ciò che traspare dalle tele dell'artista è esattamente quella magia che tutti noi respiriamo a pieni polmoni camminando sulla Riva degli Schiavoni.

Meritevole è ritrovare un Tancredi in questo contesto, assaporarlo dopo un appagante giro per le splendide vie della città e dopo essersi riempiti gli occhi dalle Procuratie di Piazza San Marco.

Tancredi Parmeggiani exhibition, Peggy Guggenheim Venice

Tancredi Parmeggiani, Peggy Guggenheim Venice

L'esposizione offre una panoramica completa dei temi che caratterizzano lo sviluppo artistico del pittore, troviamo gli esordi giovanili, gli autoritratti cubisti su carta, lo sdegno in reazione alla guerra fredda, il periodo di crisi, l'esistenzialismo e il cambiamento di linguaggio. La sala conclusiva, dedicata ai collage-dipinti, risulta meno in grado di colpire, a causa del forte impatto visivo che hanno invece le sale precedenti, con tele più grosse, fortemente evocative e dall'effetto immediato.

Tancredi Parmeggiani, Fiori dipinti da me e da altri 101%, 1962

Tancredi Parmeggiani, Fiori dipinti da me e da altri 101%, 1962

Le istituzioni scomodate per questa esposizione sono tante e molto note, tra le quali spiccano il Moma e il Brooklyn Museum di New York e l'importante galleria Mazzoleni di Torino. Molte tele tornano semplicemente a casa, donate in precedenza dalla Guggenheim stessa, mentre altre vengono rispolverate dagli archivi della sua collezione.

November 13, 20162 Comments

Tranquille, anche nel 1600 avevano la cellulite!

È in corso a Palazzo Reale la mostra di Pietro Paolo Rubens, nome italianizzato per l'occasione, con il fine di enfatizzare il rapporto tra il pittore e l'arte italiana.

Il cavallo di battaglia dell'intero percorso è la prima sala, in essa sono esposti i ritratti che raffigurano gli affetti di Rubens, compreso il suo più famoso autoritratto, la cui attribuzione, però, non è ancora certa (si tratta comunque di un capolavoro).

Mentre giravo tra le prime sale un pensiero mi è saltato subito alla mente: quello di sentirmi osservata. Gli sguardi delle persone ritratte sono talmente vivaci e concreti da sembrare fissarti in maniera tutt'altro che vuota, bensì penetrante. Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, sicuramente Rubens è stato in grado di cogliere l'essenza dei suoi soggetti.

La mostra vuole mettere in scena il rapporto del pittore fiammingo con l'Italia e per farlo si serve di innumerevoli paragoni con statue antiche ed artisti di quel tempo, tali per cui la nostra capacità di analisi è continuamente stimolata in un fervido gioco di comparazioni e confronti.

Il percorso è tematico e non cronologico, ragion per cui si rimbalza da una bellezza più ideale, come quella del magnifico “Torso del Belvedere” (al quale si ispirò anche Michelangelo), ad una più drammatica scena di Saturno che divora i suoi figli (che ci evoca immediatamente la riproduzione, ancor più brutale, di Goya), ad una bellezza molto più realistica e meno idealizzata di “Susanna e i vecchioni”.

La figura femminile è abbondante, ha le cosce piene ed un volto paffuto. A differenza delle rappresentazioni di nudo precedenti, qui compare “il difetto”. Rubens con estrema modernità ha voluto rappresentare una donna vera, abbandonando così l'idillio della figura classica, pur conservandone la bellezza. Messaggio da non sottovalutare nella società odierna, in cui si vuole sempre più rendere al mondo esterno un'immagine di sé ideale (aiutati, o forse rovinati, da una tecnologia che lo rende possibile con mezzi semplici e alla portata di tutti).

Lo stesso soggetto è stato riprodotto da Artemisia Gentileschi, unica pittrice donna (a noi nota) di quel tempo, della quale, in questi giorni, è proposto un meraviglioso documentario su Sky Arte. Consiglio a chi ne fosse in possesso di non lasciarselo scappare.

Se siete affascinati dall'arte antica e desiderosi di vederne un grande esempio, la mostra di Rubens è sicuramente un'occasione da non perdere. Sfrontati e quasi sfacciati risultano gli sguardi dei ritratti e simboliche, ma allo stesso tempo disilluse, sono le sue allegorie.

November 8, 2016No Comments

Sarà mica Arte questa!

Domenica 6 Novembre si è conclusa Artissima, una delle più importanti Fiere dell'Arte Contemporanea che abbiamo in Italia.

Il fenomeno delle Fiere d'arte è in continua crescita ed espansione, sia dal punto di vista dei numeri (sempre più espositori, sempre più visitatori), sia dal punto di vista della popolarità. I grandi collezionisti provenienti da tutto il mondo, infatti, non hanno né voglia né tempo di girare ogni singola galleria del Pianeta Terra per selezionare le opere da acquistare ed è sicuramente a loro più comodo trovarle tutte assieme una accanto all'altra in un unico grande sito.

Inoltre, come ogni Fiera che si rispetti, Artissima prevede tutta una serie di eventi ed attività collaterali, che rende la città di Torino frenetica. E' così che si passa ad un ritrovo per esperti del settore, ad un'occasione di intrattenimento per tutti.

La Fiera ha tenuto aperto quattro giorni, durante il primo – snobbissimo – giorno possono accedere solo i collezionisti, o chi nel mondo dell'arte ci lavora. Da Venerdì in poi è aperta ai comuni mortali. La prima impressione che si ha visitandola è, come anticipato dal titolo, ma è veramente arte questa?, non basta un'occhiata veloce per poter giudicare le opere contemporanee, la maggior parte sono difficili e concettuali, che sembrano non significare nulla, o non essere addirittura arte. Come si fa dunque a capirci qualcosa essendo un comune mortale, alias, un semplice turista? Bisogna chiedere!

Ecco però comparire il primo grande ostacolo: il gallerista-tipo non risponderà mai. Questo rende l'impresa ancora più ardua, motivo per cui armarsi di pazienza è il secondo grande requisito da avere, unito a buona volontà e tanta sana curiosità. Solo così si riesce ad estrapolare qualche timida informazione su ciò che si sta osservando e si può cominciare a guardare le stranezze e bizzarrie dell'arte dei nostri tempi con meno pregiudizi e più interesse.

Personalmente ho apprezzato moltissimo l'area dedicata alle librerie: stand che espongono meravigliosi lavori di grandi artisti (più moderni che contemporanei), presentando piccole stampe e disegni su carta, ideali per i collezionisti alle prime armi, che ancora non possono permettersi un Damien Hirst da 12 milioni di dollari. I proprietari di queste editorie d'arte sono molto disponibili e pronti a raccontare la storia che c'è dietro ai manuali che espongono. Ho veramente amato girare in mezzo a quei piccoli capolavori firmati da nomi come Fontana, Castellani, Pomodoro, Boetti.

Al di là dell'estrema soggettività con cui si possa aver vissuto la Fiera e i suoi lavori, vi è stato qualcosa di universalmente percepibile: le ricorrenti tematiche sociali che diffondevano un grande senso di angoscia ed allarmismo. Tante le provocazioni e tanto il senso di disagio. Sono rimasta molto colpita – e quasi disturbata – dall'opera del polacco Karol Radziszewsky presso la "Galerie BWA Warszawa". Essa rappresentava un intero muro pieno di fotografie, molto esplicite, raffiguranti una fittizia gay-gang “Fag Fighters”, fotografata nell'intento di scatenare scompiglio nelle strade dell'Europa dell'est, infliggendo pene tratte dai peggiori incubi omofobici, il tutto mascherati da cappucci rosa. Le immagini risultavano pietose, con rapporti sessuali violenti, non censurati, volgari e molto lontani da una possibile connotazione erotica o dal senso di piacere. L'artista, fondatore della rivista “Dik Fagazine”, che documenta la vita delle persone omosessuali nel vecchio Regime Sovietico, è sicuramente riuscito a richiamare l'attenzione dello spettatore.

Altro lavoro particolarmente inquietante è stato quello dell'artista cinese Li Wei. Egli ha ricreato un perfetto salottino borghese, con tanto di pareti dall'improbabile colore verde oliva, una poltroncina in velluto – che anche nostra nonna ha avuto il buon gusto di rinchiudere in soffitta – da un adorabile Yorkshire bianco – talmente adorabile da incutere terrore – e dalla riproduzione in silicone e vetroresina di un bambino dalla carnagione un po' troppo pallida e dalla smorfia un po' troppo plastica, che nascondeva dietro di sé una simpatica bomba a mano.

Probabilmente è stata la seconda opera più fotografata, dopo la citazione di Alfredo Jaar al romanzo del 1971 di Nanni Balestrini: “VOGLIAMO TUTTO”, situato allo stand della galleria "Lia Rumma" e pronto ad accogliere i visitatori trepidanti.

Tematiche sociali, senso di angoscia, qualche video-art qua e là, poche fotografie, un'intera area dedicata alle performances e tanto, tanto neon, hanno caratterizzato la ventitreesima edizione di Artissima. Forse ho fatto bene a non comprare quella meravigliosa opera d'arte sottoforma di glitter verdi/azzurri gettati a terra, a quest'ora sarebbero già finiti nel Folletto di mia madre.

November 3, 2016No Comments

Nella mente di Escher (che confusione!)

Mancano pochi mesi alla chiusura della mostra dedicata all'artista, genio della grafica, Escher. Le sue opere più rappresentative riguardano la sovversione delle leggi della fisica e la rappresentazione di un mondo impossibile, se non su carta.

La mostra comincia mettendo in scena la parte più realistica della produzione dell'artista: scorci e vedute che Escher compie, affascinato dai meravigliosi paesaggi nostrani del Sud Italia, in particolare, dalla Costiera Amalfitana (sappiamo bene di cosa è capace la nostra terra!). La rappresentazione di questi paesini è maniacalmente minuziosa e precisa, talmente dettagliata da ricreare l'effetto contrario: i luoghi sembrano misteriosi, tratti direttamente dal miglior libro di fiabe per bambini.

Piano piano, mentre si prosegue con il percorso, in maniera, a parer mio, non del tutto chiara, vengono svelati i lavori più astratti di Escher ed iniziano a comparire puri capolavori di grafica, giochi psichedelici di bianco e nero, che neanche i migliori caleidoscopi ti saprebbero regalare!

Con il proseguire ci si addentra sempre più in un mondo parallelo, un mondo nel quale ogni legge della fisica a noi nota, viene messa in discussione e si intrecciano scale, la forza di gravità si fa policentrica ed il disegno diviene trappola per un occhio distratto. Le tele sono proposte con una discutibile cornice lignea e appoggiate a pareti dai colori scuri ed intensi, poco concilianti con l'idea minimalistica e a tratti pop che le tele dell'artista trasmettono.

Ho molto gradito, però, i diversi giochi didattici di cui era cosparsa la mostra: illusioni ottiche sotto varie forme, spazi dedicati ai selfie, consigli sugli hashtag da utilizzare e molti angoli prospettici da cui poter constatare con i propri occhi alcuni inganni visivi molto amati da Escher, geniale! Lo trovo un ottimo metodo per rendere la mostra memorabile sia per grandi, che per piccini ed un modo per far divertire anche la persona più disinteressata.

Escher è stato di grande ispirazione per artisti sia del suo tempo, che dei giorni nostri. La più recente citazione dedicatagli la possiamo trovare nelle scale mutevoli di Harry Potter, nella pubblicità di Sky Boxe (in cui il cantante Mika ci appare in una stanza vuota con scale in continuo movimento) e nel recentissimo film della Marvel al cinema in questi giorni: “Doctor Strange”, in cui un pizzico di novità (rispetto ai precedenti film della casa produttrice) è portato proprio dall'esistenza di una realtà mutevole: sembra di vedere su schermo esattamente la rappresentazione filmica dei bizzarri mondi raffigurati nelle tele di Escher.

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